In Algeria sono arrivata per la prima volta nel novembre del 2003. Ho amato questo paese come si ama un primo amore, la mia famiglia algerina mi accolse come una figlia. Erano i primi tempi di calma dopo gli anni di fuoco in cui impazzava la guerra civile, ci furono 200 000 morti e migliaia di desaparecidos. Anni bui, di terrorismo islamico e altrettante crudeltà e barbarie da parte dell’esercito. Tempo addietro, avevo circa 15 anni quando sentivo alla televisione le notizie feroci degli sgozzamenti nei villaggi algerini, una volta lessi un articolo sugli attentati sempre più frequenti nella capitale Algeri. Ad un concerto di musica etnica nella mia città, in Svizzera, doveva essere il ‘95 o ‘96, ricordo una famosa cantante di musica raï, che aveva chiesto al pubblico di non riprenderla in foto o video per paura delle rappresaglie dei terroristi nel suo paese. “Quasi ci si dimentica di aver vissuto una vita senza paura”, mi confidò un cugino, “quando ogni giorno vedi morte e distruzione”. Baciava sua madre Samir prima di uscire di casa in quegli anni, in uno dei quartieri caldi di Algeri, perché non sapeva se si fossero rivisti alla fine della giornata. Attentati, sgozzamenti e altrettanto sanguinarie vendette da parte dell’esercito erano all’ordine del giorno.
Ho avuto la fortuna di arrivare in Algeria quando la situazione era ormai molto più calma, ma ricordo ancora il vecchio aeroporto di Algeri, ancora provato e distrutto in parte da un attentato qualche anno prima, dove al momento di salire sull’aereo ognuno doveva riprendere e mostrare la sua valigia, per essere sicuri che non ve ne fosse rimasta nessuna senza proprietario e non rischiare di decollare con delle bombe pronte a esplodere a bordo. Sono un popolo forte gli algerini, hanno visto la guerra, il terrorismo, hanno lottato ma non hanno perso la speranza, né la voglia di ridere. Non ho mai visto odio nelle persone, o rancore. Prima ancora del terrorismo, nella guerra per l’indipendenza dalla Francia, morirono 1 milione di persone, poi arrivò la guerra civile e altri lunghi anni durissimi.
Al mio primo arrivo in Algeria durante il mese del Ramadan, ricordo la pioggerellina di novembre, le persone che camminano sul ciglio della strada in fila, con i sacchetti da cui fuoriescono le baguette e il coriandolo per la “shorba”, la minestra di verdura e carne con cui gli algerini usano cominciare il pasto dopo aver digiunato per tutto il giorno. Si mangia tanto alla sera nel mese di Ramadan, e ogni sera è una festa. Mi sembra ancora di sentire il sapore del coriandolo e del limone nella zuppa e rivedo le tavole imbandite con i piatti più svariati, dalle coloratissime insalate con pomodori, uova e acciughe, ai piatti di olive e pollo. Tutto è decorato e presentato a festa. Poi il rituale di mangiare tre datteri e bere un bicchiere di latte per rompere il digiuno, e le trasmissioni televisive dove si vedono le famiglie riunite a tavola, gli sketch comici, la preghiera. Quando mancano pochi minuti alla rottura del digiuno tutti si preparano, c’è agitazione, chi corre a lavarsi, chi mette gli ultimi piatti in tavola, chi controlla l’orologio e dice trepidante “mancano due minuti”. Finalmente, si rompe il digiuno, si mangiano i tre datteri e si beve un po’ di latte, poi la preghiera e le grandi mangiate, anche se poi la gente non riesce a mangiare così tanto dopo aver avuto lo stomaco vuoto per tutto il giorno.
Nel frattempo sono passati molti anni, e il Ramadan avviene in estate, ma i miei primi ricordi sono legati al Ramadan nei mesi invernali. Il giorno della festa, alla fine del mese di digiuno, tutti si vestono di bianco o con gli abiti migliori, i bambini ricevono dei vestiti nuovi, si mangia, si ride, e si fanno le visite ai famigliari.
Per me l’Algeria sarà sempre l’odore del coriandolo nella shorba, e il profumo della menta per il tè. La musica tradizionale ripetitiva e dolce e un po’ malinconica in inverno e il raï più scatenato in estate.
Un giorno andiamo a visitare la “tomba della cristiana”, un monumento costruito in onore di un’imperatrice cristiana su una collina ai piedi del monte Chenoua, e i resti delle rovine romane vicino alla cittadina di Tipaza. In queste terre c’è tanta storia e una natura bellissima tra il mare e le colline. Un altro giorno andiamo in gita nella capitale, e andiamo a vedere le “montagne delle scimmie”, a est di Algeri. Pare che le scimmie fossero fuggite durante gli anni della guerra, spaventate dal rumore degli spari, ma ora stanno tornando, e il weekend le famiglie vengono qui in gita, le danno da mangiare e scattano foto insieme agli animali.
Dopo le mie prime esperienze algerine in inverno, vi sono tornata d’estate. L’Algeria in questa stagione si trasforma, c’è più movimento, più allegria. Il mare, le feste al villaggio turistico, le crêpes alla nutella, le risate nel patio. Andiamo in spiaggia e c’è un miscuglio di donne che fanno il bagno in bikini o velate. Fa caldo in estate, le spiagge sono affollate, sono piene di “les immigrés”, algerini emigrati in Francia, Italia, Svizzera, che tornano al paese per le vacanze estive. La sera andiamo a sentire la musica, i dj che suonano al villaggio turistico, o ce ne stiano nel patio a chiacchierare. Si ride e si scherza.
Arriva il giorno tanto atteso del matrimonio di una delle sette sorelle di Samir. C’è grande agitazione per i preparativi, la casa si riempie di ospiti già nei giorni precedenti alla festa, c’è un gran via vai. Insieme alle sorelle, cugine e amiche ci prepariamo, andiamo all’hammam e dal parrucchiere. Sono come una bambolina per le sorelle e tutte mi aiutano a prepararmi e a farmi bella, mi consigliano sul trucco e sui vestiti da indossare. Mi ha sempre affascinato la loro abilità nel farsi i capelli, truccarsi e vestirsi, mi piace farmi coccolare e farmi bella con loro. Finalmente è la festa, siamo bellissime, tutte donne in una grande sala animata dalla musica di un dj, mentre gli uomini stanno nella stanza accanto, chiacchierando e aspettando l’ora di cenare. Noi donne intanto balliamo, mangiamo biscotti e beviamo il tè. La sposa sfila con vari vestiti, fino all’ultimo, il vestito da sposa bianco, è bella e sorridente, truccata e coi capelli raccolti. Sorrido, ballo e aiuto a servire il tè e i biscotti alle invitate. Mi confondono con una delle sette sorelle. Ho i capelli scuri, raccolti, e i miei lineamenti italiani assomigliano a quelli algerini. Ballo insieme alle altre donne, qualcuna mi dice “tu danses comme une arabe”, “balli come un’araba”. Mi piace tantissimo confondermi e mischiarmi con la gente dei paesi in cui vado, mi immedesimo, e come un camaleonte mi mimetizzo e mi adatto all’ambiente circostante per rendermi irriconoscibile.
Sono i miei ultimi giorni in questo paese, so che per molto tempo non tornerò più, forse mai più. Il mio matrimonio sta finendo, e così i miei anni algerini. Ho ancora nostalgia quando penso all’ultima notte in quel giugno del 2009.
“Algérie mon amour”, mi sembra dicesse il ritornello di una canzone dell’estate di quei tempi. L’ultima notte a Tipaza è caldissima, decidiamo di dormire fuori, stendiamo i nostri materassi sulla terrazza sul tetto della casa. Mi sveglio al mattino alle 4 e c’è una calma quasi surreale, come se il mondo si fosse paralizzato, come se il tempo si fosse fermato. Sento il vento caldo, il canto del muezzin, l’odore e il rumore del fuoco che qualcuno ha acceso per bruciare le sterpaglie. Tutto il resto è silenzio e calma. Sento chiaramente una sensazione di impotenza, ma anche di estrema pace e accettazione, di fronte alla vita e al mondo. Respiro l’aria calda, e ascolto il silenzio rotto solo dal canto del muezzin, non ci si può ribellare alla volontà di Dio, o dell’universo, o della vita, e mi sento totalmente invasa da una pace struggente. Se Dio vuole, un giorno tornerò. Inshallah.